“Cervello rettiliano: un mito da smontare” è l’adattamento italiano del titolo dell’articolo originale di Sarah McKay, “Rethinking the reptilian brain”, cioè “Ripensare il cervello rettiliano”, che trovi QUI in inglese.
Ho tradotto in italiano l’articolo originale con il permesso dell’autrice, perchè in Italia sento ancora troppo parlare di rappresentazione datata, obsoleta (risale agli anni ’60) e scorretta del nostro cervello.
Mi sono formata personalmente con Sarah McKay in neuroscienze applicate al coaching e sono felice di renderti partecipe della ricchezza di contenuti scientifici accurati, di cui ho beneficiato durante i miei percorsi formativi con lei.
Buona lettura!
Diana
Hai mai notato il cervello rettiliano menzionato qua e là nelle pagine dei libri di auto-aiuto, discorsi motivazionali sulla leadership, presentazioni di marketing e vendite, post di life-coach su Instagram, e persino nei libri di testo di psicologia?
- “Le lucertole non possono essere leader!”
- “Stimolate il cervello rettiliano del vostro cliente per riuscire a vendere.”
- “Il cervello rettiliano e come può bloccare l’apprendimento del vostro bambino.”
- “Il cervello rettiliano ha il potere di bloccare la terapia.”
Due luoghi in cui raramente troverai il cervello rettiliano in agguato sono le pagine dei libri di testo di neuroscienze contemporanee o di biologia evolutiva.
Perché?
Perché il concetto è stato ampiamente screditato da neuroscienziati e biologi evoluzionisti: il modello è superato, e non si basa sulla scienza contemporanea.
Le origini del mito del cervello rettiliano
Il concetto dietro la teoria del “cervello tripartito” o “cervello rettiliano/rettile” era stato proposto negli anni ’60 del ‘900 dal neuroscienziato Paul Maclean. MacLean aveva suggerito che il cervello umano è diviso in tre livelli comparsi in successione durante l’evoluzione.
Il livello più antico, il cosiddetto “cervello rettiliano” o “r-complex”, controlla le funzioni fondamentali come la respirazione, la temperatura corporea e il battito cardiaco. Successivamente c’è il sistema limbico che controlla invece le risposte emotive e, infine, la corteccia cerebrale che controlla il linguaggio e la ragione.
Nonostante McLean avesse originariamente individuato i gangli basali come cervello rettiliano, ho visto questa espressione essere usata per descrivere o etichettare quasi tutte le strutture cerebrali ad eccezione della corteccia prefrontale!
Ecco alcuni esempi in cui l’espressione è stata usata indiscriminatamente per etichettare:
- il tronco encefalico e il cervelletto,
- l’ipotalamo,
- l’amigdala,
- ed una qualche struttura al centro del cervello, che potrebbe essere il talamo.
Il concetto del cervello rettiliano è ampiamente utilizzato da terapeuti, coach e “guru” per spiegare i comportamenti umani, e molto spesso per descrivere le nostre risposte alle potenziali minacce attraverso le reazioni “fight or flight”, “attacco o fuga”.
Il modello attrae in particolar modo gli psicoterapeuti, poiché sembra dare una credibilità biologica alla teoria freudiana della personalità con l’Es, l’Io e il super-Io che corrisponderebbero in modo perfettamente ordinato al cervello rettiliano, limbico e corticale.
Oppure viene usato per spiegare l’irrazionalità del comportamento umano, in cui le emozioni dominano il pensiero razionale o la logica. Infatti, MacLean aveva chiamato il sistema limbico “complesso paleo-mammaliano”, e l’aveva messo a capo delle emozioni e della risposta “fight or flight”.
Questa assoluta mancanza di coerenza, la sua vaghezza e la confusione sono probabilmente degli indizi di come il concetto sia un sistema descrittivo piuttosto inutile!
I nostri cervelli non si sono evoluti dalle lucertole
Un recente e divertente articolo intitolato “Your Brain Is Not an Onion With a Tiny Reptile Inside”, ovvero “Il tuo cervello non è una cipolla con un piccolo rettile all’interno”, pubblicato nella rivista Current Directions in Psychological Science, affronta i molti problemi legati al modello del cervello rettiliano ed esorta le persone ad “abbandonare questa concezione errata del cervello umano”.
Dal punto di vista della biologia evolutiva (che non è il mio campo di competenza) gli autori dichiarano che l’idea del cervello tripartito è “in contrasto con il chiaro e unanime accordo su questi temi tra coloro che studiano l’evoluzione del sistema nervoso”.
Dal punto di vista evolutivo, essi notano tre principali problemi relativi al modello del cervello tripartito.
In primo luogo, tale modello implica che l’evoluzione sia una progressione lineare in cui un organismo si evolve in quello successivo:
lucertole > topi > scimmie > umani
E, allo stesso tempo, gli strati più complessi del cervello andrebbero ad aggiungersi sopra gli strati preesistenti.
Sbagliato!
I mammiferi non si sono evoluti dai rettili. I mammiferi e i rettili condividono un antenato comune simile a un pesce.
“… la corretta visione dell’evoluzione è che gli animali si siano evoluti a raggiera da degli antenati in comune. All’interno di questo processo, i sistemi nervosi complessi e le sofisticate capacità cognitive si sono evoluti in modo indipendente molte volte.”
In secondo luogo, la corteccia cerebrale non è propria esclusivamente dei mammiferi: anche i rettili, i pesci e i volatili hanno una corteccia cerebrale.
Infine, il cervello non si è evoluto attraverso la sovrapposizione di strati sempre più sofisticati sugli strati più semplici.
“La nozione di strati aggiunti alle strutture esistenti nel corso del tempo evolutivo, man mano che le specie diventavano più complesse, è semplicemente errata”.
Le emozioni non sono pre-cablate, le costruiamo noi
Dal punto di vista delle neuroscienze, l’analogia del cervello rettiliano perde completamente credibilità se prendiamo in considerazione la nostra comprensione aggiornata della neurobiologia delle emozioni e del comportamento.
Nel 2020 la maggior parte dei neuroscienziati non sostiene più l’idea che la nostra vita sia governata da istinti profondamente radicati che si manifestano automaticamente in risposta a particolari trigger, con certe emozioni accompagnate da una specifica espressione facciale e sensazione fisica. Questa cosiddetta “visione classica” delle emozioni sta perdendo il suo favore man mano che impariamo di più come funziona il cervello, il processo di apprendimento dell’essere umano e ancora di più la consapevolezza.
Le prove, invece, puntano verso una teoria dell’“emozione costruita”.
Questa teoria sostiene che nei nostri cervelli non vi sia un set di emozioni già programmate, ma che vari “ingredienti” siano elaborati da intere reti cerebrali per “costruire” i sentimenti consapevolmente vissuti nel momento.
Gli ingredienti delle emozioni
Gli ingredienti delle emozioni includono:
- le sensazioni fisiologiche che sentiamo nel nostro corpo
- la situazione in cui ci troviamo
- le persone con cui siamo
- i nostri ricordi e le nostre esperienze personali
- il linguaggio con cui abbiamo imparato a descrivere i nostri sentimenti coscienti.
La neuroscienziata Lisa Feldman Barrett ha detto:
“Un’emozione è la creazione del tuo cervello che attribuisce un certo significato ad una data sensazione corporea in relazione a ciò che succede nel mondo intorno a te”.
Joseph LeDoux ha proposto una teoria simile di costruzione delle emozioni basata su decenni di studio della più “primordiale” delle emozioni: la paura. Egli afferma che il sentimento cosciente della paura è ciò che emerge quando certi tipi di “ingredienti” inconsci si fondono e sono cognitivamente interpretati o “notati”.
“Si dice spesso che emozioni come la paura siano state ereditate da antenati animali… La paura e l’ansia non sono cablate a livello biologico. Non scaturiscono da un circuito cerebrale in modo preconfezionato come un’esperienza cosciente pienamente formata”.
L’evoluzione ha fatto il grosso del lavoro, e noi possediamo circuiti di rilevamento delle minacce ad azione rapida (compresi l’amigdala e l’ipotalamo). Ma l’apprendimento e la memoria, la lingua e la cultura sono ulteriori ingredienti di base che vengono aggiunti al mix per creare sentimenti coscienti di paura e di ansia.
Non esiste un circuito della “paura” cablato a livello neurologico dentro il cervello rettiliano.
Come LeDoux sottolinea, possiamo sentirci minacciati da una grande varietà di eventi: i predatori, la mancanza di cibo o di acqua possono farci temere la fame o la disidratazione; le temperature estremamente basse possono causare la paura della morte per ipotermia; le diagnosi di cancro spaventano tutti; i funzionari della sanità pubblica temono un’epidemia globale di un virus contagioso, molti di noi si preoccupano dell’instabilità politica, della perdita economica, degli abusi sociali e delle preoccupazioni esistenziali. (Quella lucertola dentro il nostro cevrello deve essersi molto evoluta, a quanto pare!)
Per coloro che desiderano esplorare ulteriormente questi concetti, qui troverete un’utile spiegazione della ricerca di LeDoux sulle paure, e qui invece una meta-analisi che mette alla prova le ipotesi di Barrett.
Categorizziamo le emozioni in base al contesto
Di certo sembra che le emozioni siano esperienze subcoscienti piuttosto improvvise che si manifestano automaticamente. Ma se ci pensi bene, ti rendi conto di quanto spesso un’emozione ci può sembrare inappropriata o erroneamente attribuita semplicemente per la situazione in cui ci troviamo.
Per esempio, spesso usiamo l’espressione “combatti o fuggi” per descrivere l’attivazione del sistema nervoso simpatico (SNS), per cui il rilascio di noradrenalina dalle terminazioni nervose direttamente nel flusso sanguigno aumenta la frequenza cardiaca e la respirazione e dirige il sangue verso i grandi muscoli delle gambe. (E naturalmente si dice spesso che il cervello rettiliano risponda e inneschi il meccanismo “fight or flight”.)
Contrariamente a questa versione romanzata degli eventi, Madre Natura non ha fatto evolvere il SNS esclusivamente per salvare gli antichi uomini delle caverne dalle tigri dai denti a sciabola. Il SNS si è evoluto per soddisfare le richieste energetiche del corpo a tutte le minacce, le sfide e le opportunità.
Prendiamo in considerazione un leone, un’antilope e un atleta.
Il leone che insegue l’antilope, l’antilope stessa, e l’atleta che corre una corsa di 400m: tutti sperimentano l’attivazione del SNS che permette loro di correre veloci e di affrontare la loro particolare sfida.
Ma a chi attribuiamo la “paura”?
Solo all’antilope, non all’atleta. Di certo non al leone. In realtà, però, è coinvolto lo stesso ingrediente fisiologico (l’attivazione del SNS), ma in contesti leggermente diversi, il che ci porta a usare diverse sfumature di “emozione” per descrivere come il leone, l’antilope o l’atleta potrebbero sentirsi.
Vedi come intuitivamente sappiamo che il contesto è importante?
Dare un nome alle emozioni per riuscire a gestirle
Se sei un terapeuta o un coach saprai che la capacità di riconoscere e sviluppare un vocabolario per parlare delle emozioni è necessaria per analizzare e riflettere sui modelli emotivi.
Pensa al mondo emotivo espresso dalle seguenti parole: pazzo, mite, cattivo, meschino, orribile, malevolo, meraviglioso, manipolato, manipolativo, incompreso, malizioso, depresso, melodrammatico, lunatico, malinconico, melanconico, allegro, commosso, cupo, o maniacale?
Il cervello non ha un archivio precostituito di emozioni corrisoondenti alle parole di questo elenco. Sono tutti concetti che impariamo gradualmente man mano che cresciamo. Impariamo il vocabolario appropriato per descrivere come ci sentiamo in relazione a una particolare situazione o contesto sociale.
Ai bambini piccoli mancano le parole specifiche per descrivere certe emozioni. Quindi un bambino di 3 anni che guarda un fratello maggiore che mangia un gelato davanti a sé si sentirà molto triste. Un tredicenne, con i suoi dieci anni di esperienza e un vocabolario più ampio, proverebbe forse qualcosa di simile a una leggera invidia quando si renderà conto che il gelato è stato dato al fratello da un insegnante per aver vinto una gara.
Imparare nuove parole per le emozioni ad ogni età
L’apprendimento di nuove parole emotive non si limita all’infanzia. Come sottolinea Barrett, una volta non c’era una parola inglese per la sensazione di piacere provata di fronte alle disgrazie altrui, finché i tedeschi non ci hanno donato “schadenfreude”. Quando impariamo una nuova espressione o descrizione, è più probabile che in futuro riusciremo a riconoscere e a provare quell’emozione. La schadenfreude non è un’emozione integrata solo nel cervello di chi parla tedesco quando qualcuno che non gli piace se la passa male.
Tim Lomas, della University of East London, ha portato ad un nuovo livello l’idea di imparare nuove parole per descrivere le emozioni nel suo Positive Lexicography Project. Egli ha raccolto parole che identificano “precise esperienze emotive che sono trascurate dalla lingua inglese”.
Riconosci queste esperienze emotive ricche di sfumature?
- Desbundar (portoghese) – liberarsi delle proprie inibizioni mentre ci si diverte.
- Gigil (tagalog) – l’irresistibile impulso di pizzicare o stringere una persona perché amata o cara.
- Natsukashii (giapponese) – un nostalgico desiderio per il passato, con la felicità per il ricordo affettuoso, ma la tristezza perché ormai è passato.
- Yuan bei (cinese) – un senso di realizzazione completa e perfetta.
- Sukha (sanscrito) – felicità genuina e duratura, indipendente dalle circostanze.
Uso la parola olandese “melig” da anni dopo averla imparata da amici durante una vacanza nei Paesi Bassi. Descrive quel delizioso stato di sonnolenza quando tutto è esilarante o sciocco e si ridacchia per qualsiasi cosa.
Barrett ed altri ricercatori hanno raccolto evidenze scientifiche per dimostrare che, se si aumenta il proprio vocabolario emotivo (o “granularità emotiva”), si possono influenzare le esperienze emotive future.
In questo modo, ampliare il tuo vocabolario emotivo è un po’ come possedere un dizionario del benessere mentale che può darti un forte senso di autonomia rispetto alle situazioni e alle risposte che provi.
Tutto questo sarebbe possibile, se il cervello rettiliano fosse al comando?
Dobbiamo smettere di usare l’espressione “cervello rettiliano”?
IN SINTESI: sì!
Non nasciamo con emozioni predefinite che emergono da un cervello di lucertola. Il cervello umano non è una serie tripartita di complessi separati. Non siamo alla mercé del nostro cervello rettiliano quando sperimentiamo una minaccia.
Questo lo abbiamo capito.
Ma che importanza può mai avere se usiamo un’analogia (sbagliata) di come funziona il cervello?
Recentemente una formatrice di coach ha commentato sul mio profilo Instagram che non importa, dicendo: “Insegno il concetto di cervello tripartito ai miei studenti avvertendoli che la teoria è superata e che i neurobiologi non riescono a trovarsi d’accordo sui diversi step evolutivi e sui confini tra i “cervelli”. Per i coach, però, è un concetto facile da afferrare e comprendere”.
Personalmente non insegnerei un concetto completamente sbagliato. E mi piace dare un po’ più di fiducia alla capacità dei miei studenti di afferrare i concetti di base delle neuroscienze!
Casario e colleghi si pongono la stessa domanda:
“Ha importanza se gli psicologi hanno una comprensione errata dell’evoluzione neuronale?”
e rispondono alla loro stessa domanda con l’affermazione,
“Siamo scienziati. Dovremmo preoccuparci dei veri stadi neuronali anche in assenza di conseguenze pratiche.”
Se sei uno scienziato sono sicuro che sarai d’accordo anche tu!
Se non sei uno scienziato, ma “usi” la scienza del cervello per spiegare il comportamento, o usi la tecnica della psicoeducazione nel tuo lavoro, per favore: non farti sedurre (e non cercare di sedurre gli altri) con il fascino delle spiegazioni delle neuroscienze. Soprattutto non usare teorie palesemente errate che tolgono spazio di agentività emotiva al tuo cliente.
Il mio problema con l’analogia del cervello rettiliano è che implica che il comportamento umano è guidato prima di tutto dalla paura, e che il cervello rettiliano prevale sulla capacità di avere un pensiero calmo e razionale.
Il modello aggira ogni discussione sull’enorme diversità delle esperienze emotive di cui siamo capaci e che ci muovono a livello profondo: amore appassionato, invidia, desiderio, soggezione, stupore, soddisfazione, dolore, euforia, tenerezza. E ci toglie ogni senso di responsabilità di azione che abbiamo per nuove esperienze emotive in futuro.
Come Barrett sottolinea nel suo libro:
“Gli esseri umani non sono in balia di circuiti emotivi mitici sepolti nel profondo delle parti animalesche del nostro cervello altamente evoluto: noi siamo architetti della nostra stessa esperienza.”
Quando insegni alle persone come le emozioni si creano a partire da vari “ingredienti” non stai solo comunicando, ma stai creando la realtà. Stai insegnando strumenti per dare un senso alle sensazioni del corpo e come agire su di esse, per comunicare i propri stati emotivi con la giusta sfumatura. Questa è un’abilità di vita essenziale!
Alternative al concetto del cervello tripartito
Invece che evitare una conversazione sul “cervello rettiliano”, ecco alcuni aneddoti o spiegazioni corretti dal punto di vista neuroscientifico ed evolutivo che potresti proporre.
Nello spirito del progetto di lessicografia positiva, se hai altre spiegazioni utili sul cervello umano o sul comportamento che usi abitualmente (e che non coinvolgono i rettili) lascia un commento nell’articolo originale di Sarah McKay.
Anatomia cerebrale
Se stai descrivendo l’anatomia del cervello e vuoi distinguere l’amigdala dall’ipotalamo e dal tronco encefalico, ti consiglio di usare questo strumento online che mostra l’anatomia del cervello in 3D.
Cosa sono le emozioni
- “Le emozioni sono fatte di ingredienti come le tue sensazioni corporee, le tue esperienze di vita e le tue aspettative, le persone con cui stai, la situazione in cui ti trovi. Quali ingredienti hanno contribuito a costruire l’emozione che stai provando in questo momento?”
- Siamo noi gli artefici del nostro pensiero e del nostro comportamento, e siamo anche gli artefici delle nostre emozioni.
- Le emozioni non sono reazioni al mondo. Non sei un ricevitore passivo di input sensoriali, ma un costruttore attivo delle tue emozioni. A partire dagli input sensoriali e dalle esperienze passate, il tuo cervello costruisce il significato e stabilisce l’azione.
- Puoi sentire le emozioni in anticipo rispetto a una situazione, insegnando al tuo cervello il modo più utile per rispondere a una situazione. Gli attori sono esperti in questo. Le emozioni che provano sul palco sono reali perché le hanno già provate in anticipo.
- La preoccupazione è ripetere un pensiero più e più volte. Stai esercitando quel pensiero, e con la pratica diventa più facile sperimentare il pensiero nel tempo. Puoi invece praticare pensieri ed emozioni positive.
Regolazione delle emozioni
- Proprio come un pittore impara a vedere le più sottili sfumature di colore, o un sommelier sviluppa una propria palette di sapori per dare un noome a gusti che i non addetti ai lavori non riescono a pecepire, anche tu puoi esercitarti a dare un nome alle emozioni. Con la pratica, puoi diventare un esperto nel dare nomi e categorizzare le emozioni.
- Emozioni come la tristezza si presentano in modi diversi di sentirsi giù. Trova cinque parole per descrivere come ti senti oggi.
Paura e risposte involontarie
Spezzetta gli ingredienti delle tue emozioni, in particolare le sensazioni del tuo corpo. Ad esempio, un cuore che batte veloce non significa necessariamente che il tuo cervello abbia rilevato una minaccia o che ci sia qualcosa da temere. Forse il tuo cuore batte più velocemente perché sei emozionato, oppure ti stai preparando a fare attività fisica.
Se una persona ha paura di un ragno, ad esempio, chiedigli di descrivere il ragno usando quante più parole emotive possibili, ad esempio: “Il ragno davanti a me mi fa provare una sensazione disgustosa, snervante e nervosa, ma è un po’ intrigante.
Puoi scaricare quetso articolo in versione originale in inglese QUI.